Il Palladio Museum è un museo interamente dedicato all’architettura di Andrea Palladio.

Il Palladio Museum, appena allestito a Vicenza nella sale di un autografo palladiano come Palazzo Barbarano, non perde tempo e già nel cortile del piano terreno ammicca ai visitatori, lasciando intendere quel che li aspetta. Superata la soglia e l’atrio ombroso del palazzo, si è subito nella bella corte, dove sopra un’impalcatura da cantiere sta una gigantografia con la spiazzante versione africana di una villa con frontone – anticipazione della mostra temporanea ospitata a fine percorso – mentre un gelso per la coltivazione della seta è piantato tra i ciottoli della pavimentazione; sullo sfondo l’intonaco chiaro del muro di cinta sulla strada, o le due teorie di colonne trabeate che arrivano fino al cornicione.

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Lo si capisce bene, il museo è interamente dedicato all’architettura di Andrea Palladio e per l’appunto è ospitato nella storica sede del Centro Internazionale di Studi di Architettura che ne porta il nome, rinnovando sostanzialmente il materiale già esposto dal Museo Palladiano, ora integrato e radicalmente riallestito. Proprio la maniera in cui il Palladio Museum – per la verità, stando al logo, “Palladio Musæum” – risponde allo scivoloso mandato di illustrare un materiale difficile come quello della storia dell’architettura è forse l’aspetto più interessante di questo atipico caso di curatela e progettazione museografica.

Per l’appunto, il primo oggetto che il museo si propone di esporre è lo stesso Palazzo Barbarano, come raro caso di organicità di un’architettura cittadina realizzata da Palladio, ancora integra e sostanzialmente conservata nell’apparato decorativo coevo. E in questo riesce bene, lasciando nudo il corpo della costruzione, senza mai toccarlo con niente che non sia una luce radente o una videoproiezione, mentre come un’unica didascalia continua, stanza per stanza, è ricamato su tele di juta un inventario di palazzo del 1592.

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Nella stanza per le esposizioni temporanee si lasciano persino a vista l’intonaco risarcito e le assi di legno affogate nell’intonaco per inchiodare le tappezzerie, con una concessione al gusto per il temporary contemporary. Mentre nella sala introduttiva c’è solo un iPad, su un piloncino bianco, che comanda le proiezioni a tutta parete di Google Maps con le schede delle ville sparse in giro per il Veneto.

La partita di un museo privo (o quasi) di raccolte è quindi giocata attraverso una doppia strategia: da una parte contando su collaborazioni di primo rango, segnatamente con le collezioni del Royal Institute of British Architects e del Canadian Centre for Architecture; dall’altra attingendo alla principale risorsa del Centro Palladio, cioè l’aggiornata e costante attività di ricerca della sua comunità scientifica. Così – con quel tanto di narcisismo accademico, tenuto a bada però dal tono amichevole e sinceramente divulgativo – le pareti del palazzo sono popolate dalle figurine animate e parlanti di tre generazioni di storici dell’architettura, che escono dai proiettori lasciati a vista e con accenti diversi raccontano i temi chiave di ogni stanza, tra slot-machine architettoniche e stop motion sulla storia della committenza vicentina.

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Ognuna delle cinque sale principali può contare su un disegno autografo del RIBA, esposto in una bacheca ad ante fitta di didascalie, che lo illustrano nel dettaglio delle preferenze grafiche, delle convenzioni, dei problemi di datazione e identificazione. Alle collezioni del CCA è invece destinata la sala per le mostre temporanee, inaugurata con il palladianesimo inconsapevole e commovente dei coloni afroamericani in Liberia, documentato dai reportage che Max Blecher ha realizzato tra il 1977 e il 1978, qui in una selezione intitolata Genealogie/Genealogies.

Oltre a quelle, le sole opere originali esposte sono alcuni pezzi della collezione di trattati del Centro Palladio, da I quattro libri dell’architettura a S,M,L,XL. E poi, naturalmente, ci sono i modelli: quindici grossi plastici e i calchi che da trent’anni sono il fiore all’occhiello di ogni mostra palladiana del centro, con l’aggiunta di poche maquette dimostrative (quella spaziale della Chiesa del Redentore a Venezia, la riproduzione in scala reale dell’architrave lignea di villa Pisani a Montagnana, il repertorio di profili delle modanature).

Le grosse riproduzioni di legno e stucco sono distribuite tra le sale del piano nobile del palazzo in cinque sezioni tematiche, che con i titoli metonimici (Sala del Libro, della Seta, della Pietra, di Venezia, insieme al Salone della gloria e del grano) sono dedicate ad altrettanti ambiti della ricerca su Palladio: alla fortuna, attraverso i trattati e i diversi palladianesimi; al rapporto con Vicenza e la sua litigiosa nobiltà manifatturiera, bachi da seta vivi e vegeti – ma sotto plexiglass – compresi; alle tecniche costruttive e i materiali impiegati da Palladio; alla ricerca spaziale e cromatica formulata nelle grandi opere veneziane dell’ultima maturità; alla villa finalmente, cioè al rapporto con il paesaggio, la committenza, le repliche o le interpretazioni storiografiche, sotto le Storie di Scipione del salone monumentale e sullo sfondo delle impeccabili foto post-ghirriane (non propriamente antiretoriche) di Paolo Romano. Altri temi cruciali – l’antico, la costruzione del trattato, la biografia di Palladio – sono invece presenti solo come i fili rossi delle didascalie, o nei racconti a voce delle proiezioni. Per ognuna delle sale sono previsti comunque, nell’ambito di un’annunciata programmazione triennale, aggiornamenti periodici e costanti, alla luce dei progressi dei gruppi di ricerca attivi presso il Centro, rappresentati dalle diverse sezioni.

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Questa progettualità fornisce anche l’alibi, o il pretesto, per le insolite e un po’ spiazzanti scelte museografiche di Scandurrastudio, incaricato dell’allestimento: cioè tutto un apparato di oggetti funzionali e minimi, sfacciatamente temporanei, però ammiccanti e smart che si appoggiano senza ambizioni di durata sui pavimento a terrazzo o contro i muri intonacati. Ci sono bacheche, tavoloni su cavalletti di legno non trattato, tenuti fermi dai sacchi di sabbia da cantiere; un po’ ovunque riproduzioni di dipinti, appoggiati in terra o sulle mensole dei camini, un intero repertorio di (finti) Post-it o fogli spillati, che sono invece di PVC, con l’idea di applicare a un museo permanente l’estetica temporanea dei disegni appiccicati e dei modellini messi in fila come sul banco di lavoro di un workshop.

L’allestimento riesce soprattutto nell’intento di sdrammatizzare e rendere leggibili gli ingombranti modelli di legno e stucco, tutti forniti di una legenda, una scala metrica, diverse didascalie di taglio diverso, e anche disegni in pianta o schemi compositivi tridimensionali; quasi sempre mobili, apribili, manipolabili, qualche volta un po’ precari e esposti all’usura: si conta molto sulla buona volontà degli anni a venire. In ogni caso la forma leggera e antiretorica funziona a meraviglia con il racconto messo insieme dal Palladio Museum per i suoi visitatori, che – a quasi tutti i livelli di familiarità con la storia dell’architettura – ne possono uscire divertiti o lusingati.

Post Scriptum

Negli stessi giorni, sempre a Vicenza, ha riaperto il Museo Civico di Palazzo Chiericati: altro pezzo di prima importanza del catalogo palladiano, riallestito con uno spirito in qualche modo simile a quello del Palladio Museum. Vale a dire, lasciando quasi del tutto spoglie le sale monumentali del piano terreno per rivelare gli spazi e la materia dell’architettura, con un numero selezionatissimo di opere (una, massimo due per sala) appoggiate su piedistalli bianchi e minimalisti, le luci radenti. Sono alcuni dei pezzi più antichi, forse i più prestigiosi: Lorenzo Veneziano, Marcello Fagiolino, due Valerio Belli col punto interrogativo.

Molto più affollate sono invece le cantine del palazzo, recuperate dopo l’alluvione del 2010, dove in un’esposizione scientemente scenografica è mostrata una selezione di ritrattistica vicentina, con il titolo Cinque secoli di volti. Le stanze sono quasi al buio e giocano coi facili effetti dei fari puntati o delle luce radenti, che scivolano sul legno a listelli o le pareti stonacate. Anche i pannelli delle diverse sezioni sono retroilluminati e nell’ombra fanno un effetto un po’ lounge, ma le didascalie vere e proprie mancano quasi del tutto, sostituite con un opuscolo illustrato da restituire a fine visita. La visita, appunto, finisce con una breve mostra monografica su Neri Pozza, artista molto novecentesco, molto vicentino, il quale pure ha fatto molti ritratti. Al Museo Civico comunque i lavori sono ancora in corso; il palazzo sembra man mano guadagnarne, la presentabilità delle collezioni anche.

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